La risoluzione consensuale dei contratti di locazione è efficace solo se formalizzata per iscritto con volontà espressa di locatore e conduttore. Senza documento, l’accordo rischia di non reggere né in giudizio né nei rapporti con il Comune e l’Agenzia delle Entrate.
La linea è netta e arriva in un momento caldo per il mercato degli affitti: quando un contratto richiede forma scritta per la sua validità, anche il mutuo dissenso deve rispettare la stessa forma. Tradotto: il rapporto si chiude davvero solo con un documento che riporti in modo espresso la decisione congiunta di sciogliere la locazione, con data certa e firme. La prassi degli accordi “di fatto”, a voce o via messaggistica, espone a contestazioni e può lasciare pendenti obblighi economici (canoni, oneri accessori) che le parti pensavano estinti. La giurisprudenza, già da anni, ha inquadrato il principio sulla scia della regola della forma ad substantiam per gli affitti abitativi; il punto oggi viene ripreso come criterio operativo: senza carta, la risoluzione non esiste sul piano giuridico pieno.
Forma scritta, perché serve e cosa inserire nell’accordo
Il presupposto è semplice: la locazione abitativa nasce per iscritto e, per coerenza sistematica, anche la sua risoluzione consensuale richiede un atto scritto. La logica è quella del contrarius actus: per sciogliere un vincolo nato con forma vincolata, serve la medesima forma. Non basta dimostrare che l’inquilino ha riconsegnato le chiavi o che il locatore ha ri-locato l’immobile a terzi; segnali di fatto possono semmai corroborare l’intesa, ma non sostituiscono un accordo esplicito e tracciabile. Eppure, nelle aule capita ancora di vedere cause alimentate da patti verbali “di buon senso” poi smentiti dai documenti contabili.

Sul piano pratico, l’atto di risoluzione dovrebbe indicare: estremi del contratto originario (data, durata, canone), data di efficacia della cessazione, stato dell’immobile al rilascio, sorte della cauzione (restituzione, trattenuta parziale con causale), eventuali conguagli su utenze e oneri. Utile fissare la riconsegna con breve verbale, allegando foto del bene; un dettaglio in più oggi evita fraintendimenti domani. Meglio precisare anche se restano pendenze fiscali (ad esempio imposta di registro a saldo) e chi le sopporta.
La firma di entrambe le parti, con identificazione chiara, chiude il cerchio. Per la data certa si può usare PEC, timbro postale o una registrazione tempestiva. Un errore ricorrente è affidarsi a scambi di mail o chat: materiale utile, sì, ma non sempre sufficiente a provare un consenso completo su tutti i punti. Un atto unico, breve e lineare, riduce il rischio. Già questo, lo sappiamo, fa la differenza quando i rapporti si incrinano.
Dal lato probatorio, la forma scritta aiuta anche sul fronte dei danni: se l’immobile presenta vizi dopo il rilascio, il locatore dovrà dimostrare il nesso con l’uso del conduttore; al contrario, l’inquilino potrà far valere la corretta manutenzione esibendo verbale e foto. Senza un quadro condiviso al momento dell’uscita, lo scontro finisce spesso su terreni più incerti.
Registrazione, effetti fiscali e rischi se l’intesa resta solo verbale
Chiuso l’atto, si apre il capitolo fiscale. La registrazione della risoluzione presso l’Agenzia delle Entrate non è un capriccio: serve a cristallizzare la cessazione ai fini dell’imposta di registro e, per chi applica la cedolare secca, a segnare il termine dell’obbligo dichiarativo sul canone. L’adempimento si effettua con il modello RLI, anche online, entro il termine ordinario; un deposito tardivo non “riapre” il contratto, ma può comportare sanzioni e more. Chi trascura l’adempimento rischia di vedersi chiedere imposte su mesi in cui il bene era già libero.
Sotto il profilo delle posizioni private, la registrazione non crea la validità dell’accordo — che nasce con la scrittura — ma ne consolida l’opponibilità nei confronti dei terzi e degli uffici. Sul piano sostanziale, la mancata registrazione lascia spazio a contestazioni sulle date e sull’effettivo rilascio. In caso di morosità pregressa, poi, l’atto di risoluzione può includere un piano di rientro o una rinuncia parziale alle pretese: impegni che, se messi nero su bianco, evitano contenziosi seriali.
Resta il tema degli accordi taciti: la giurisprudenza ha riconosciuto che il mutuo dissenso può anche manifestarsi con comportamenti concludenti, ma non quando la legge impone la forma scritta per il contratto originario. In ambito abitativo, questo requisito è dirimente. Chi confida solo in consegne chiavi e messaggi rischia di scoprire, mesi dopo, che il rapporto non risulta chiuso per chi deve applicare la norma o per chi valuta la prova in giudizio.
Un cenno ai tempi: indicare una data di cessazione realistica, coordinata con lo stato dei luoghi e con l’eventuale subentro di un nuovo conduttore, evita sovrapposizioni e richieste incrociate di canone. Se è previsto un preavviso contrattuale, le parti possono derogarvi nel mutuo consenso, ma la deroga va messa per iscritto, altrimenti il locatore potrebbe pretendere rate ulteriori e l’inquilino contestare la legittimità della richiesta.
Il quadro, in chiusura, è operativo: scrivere l’accordo, firmarlo, registrarlo. Sono tre passaggi che mettono al riparo entrambe le parti. Non a caso gli sportelli casa dei Comuni e molti CAF consigliano un fac-simile essenziale, con campi obbligatori e allegati minimi. La locazione finisce davvero quando la carta lo dice, e quando gli uffici fiscali ne prendono atto senza riserve.